Sto sistemando il template, quindi potrebbe potrebbe risultare un po' sto
rto. Visto?

martedì 8 dicembre 2009

Il paese irreale: contro il sintagma "paese reale" ed il politicamente corretto in genere

Avvertenza: post semiutopico ad alto rischio donchisciottesco, con David Foster Wallace che tira la carretta.


Il sintagma "paese reale", senza essere un tecnicismo, è piuttosto in voga in politica, sui giornali, sul web. Nell'uso odierno, generalmente, designa la massa di persone che si trova al di fuori di qualsiasi posizione di potere (politico, economico, culturale). Curiosamente e logicamente, si usa sempre in contrapposizione con un'altra porzione di paese, minore nel numero, ma più potente e consapevole: spesso è la classe politica, altre volte quella intellettuale.

In questa contrapposizione tra "paese reale" e "porzione di potere x" è presente sempre un concetto che è quello della distanza. Di suo il termine è piuttosto neutro, ma è usato prevalentamente con due accezioni. Da parte politica assume una connotazione positiva-demagogica-caritatevole ("il paese che lavora, il paese di tutti i giorni che si scontra con le difficoltà economiche, difficoltà quotidiane, le famiglie, i barbieri, i meccanici ecc. ecc.") mentre da parte intellettuale è spesso usato, consciamente o inconsciamente, con connotazione negativa-disillusa.

Il "paese reale" è un sintagma che puzza, ma tanto. La lingua è roba delicatissima, soprattutto per chi fa politica, per questo proprio in politica la moda linguistica raggiunge livelli nauseanti. E' molto più facile usare un termine riconosciuto da tutti, smussato, neutro, che non porti con sé valutazioni taglienti. E così si finisce nella lingua politicamente corretta.
Riporto una valutazione di David Foster Wallace sull'inglese politicamente corretto presente nel saggio "Autorità e uso della lingua" (a sua volta nella raccolta "Considera l'aragosta"):

"[...] questi codici rigorosi di eufemismo egualitario servono a soffocare quel genere di discorso doloroso, sgradevole e a volte offensivo che in una democrazia pluralistica porta a un effettivo mutamento politico piuttosto che a un mutamento politico simbolico. In altre parole, l'inglese politicamente corretto agisce come una forma di censura, e la censura è sempre al servizio dello status quo."

Ora, DFW si riferisce all'inglese americano (molto più soggetto a questa pressione) quindi a quella che è in origine la censura linguistica del politicamente corretto (usare un termine neutro in luogo di un altro affermato e ritenuto offensivo, "a basso reddito" invece che "povero"). Altri termini possono diventare da soli politicamente corretti, senza nessuna battaglia linguistica, basta che siano neutri, usati da una classe di potere e difficilmente intercambiabili (se non con termini ugualmente neutri, come "società civile").

Il "paese reale" è diventato politicamente corretto. Nella sua neutralità, nella sua necessità testuale di avere un "paese" contrapposto, mantiene le distanze senza offendere ("noi siamo qui, voi siete lì, vi vogliamo bene per carità, anzi cerchiamo di avvicinarci"). E' un sintagma che mantiene lo status quo, facile da usare in ogni situazione, che non esprime nessun giudizio e che quindi narcotizza. Molto più semplice usare "paese reale" che di volta in volta "povero", "ignorante" ecc..

La lingua è delicata e potente, per un politico è normale (ma non accettabile o giustificabile) usare la lingua per essere demagogico e populista, per non offendere nessuno e non perdere qualche voto per strada. E' meno normale per un giornalista o per una persona di cultura, figure che dovrebbero stilare la scaletta dei problemi, e per stilarla dovrebbe esserci un consapevole uso della lingua, un uso anche artistico, una necessità di forzare il linguaggio, senza rifugiarsi dietro etichette preconfezionate ad usum della politica.
Se, ad esempio, parlando di problemi culturali italiani, si usasse "ignoranti" invece di "paese reale", il problema educativo e scolastico che c'è in Italia si staglierebbe maggiormente, forse offenderebbe ma sarebbe più sotto gli occhi di tutti che non velando la realtà.
"Tu non sei reale, tu sei ignorante". Dire "paese reale" è una giustificazione, è un mantenere le cose, non è uno spingere più in là. E' far credere che di più non si possa fare, che la realtà è questa, che voi, con la vostra televisione, il vostro analfabetismo, la vostra povertà, siete lo status quo.
Il solito DFW dal solito saggio:

"L'uso di una lingua è sempre politico, ma lo è in modo complesso. [...] le convenzioni dell'uso possono funzionare in due modi: da un lato possono essere un riflesso del cambiamento politico e dall'altro uno strumento del cambiamento politico."

Aggiungo che la lingua non cambia le cose, non risolve i problemi (questa è l'illusione del politicamente corretto), ma un uso consapevole può impedire che li mascheri.
Il politico che usa "paese reale" non vuole cambiare le cose, l'intellettuale che usa "paese reale" pensa che le cose non si possano cambiare. Se la prima posizione mi fa schifo, la seconda mi deprime e non mi trova d'accordo (almeno non quest'oggi).

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